Aermec, Feralpi, Lamborghini, Michelin e gli altri: tutti i danni della guerra all'industria - Industria Italiana

2022-05-21 19:43:47 By : Mr. Tracy Han

“Molto si miete in guerra, ma il raccolto è sempre scarsissimo” – scriveva Omero. Perché la guerra – al di là del costo umano – ha sempre delle ripercussioni sull’economia e sull’industria. Il conflitto Russo-Ucraino si muove in questo contesto, ma con una differenza: in tempi di globalizzazione le conseguenze sono a larghissimo raggio. Per l’anno in corso, l’Ocse prevede un calo del Pil globale dell’1%, e la Bce ha tagliato le stime di crescita dell’Eurozona dal 4,2% al 3,7%. In Italia gli effetti del conflitto potrebbero determinare un calo del 3% di Pil, riportandolo allo “zero virgola”: sono a rischio (secondo il Fmi) 184mila imprese. In Lombardia hanno per il momento sospeso l’attività 310 aziende, ma la paralisi potrebbe estendersi. Ma quali sono gli effetti del conflitto sulla manifattura? C’è anzitutto un effetto generale comune a tutti i settori, che è quello dell’ulteriore rincaro dei costi energetici. Lo stop alla fornitura russa di metano e petrolio ha accentuato fenomeni rialzisti già in corso, perché ha concentrato per l’Europa la quantificazione dei prezzi al mercato spot di Amsterdam, che si basa sui future ed è pertanto intrinsecamente speculativo. Qualche giorno fa l’energia elettrica ha raggiunto nuovi record: 12 volte il valore di due anni fa. Se l’effetto è trasversale, l’impatto più devastante riguarda le industrie energivore, come la siderurgia e le cartiere.  Alle Acciaierie Venete (sede a Borgo Valsugana, Trento) la produzione è rimasta ferma dal 4 all’11 marzo. Abs (gruppo Danieli) di Cargnacco (Udine) ha sospeso il lavoro dell’8 marzo.  Altre aziende, come vedremo, procedono a giorni alterni, a seconda del costo dell’elettricità. Il 7 marzo Pro-Gest, il più importante gruppo cartario italiano, ha annunciato la sospensione delle attività di sei stabilimenti «a causa dell’incremento dei costi energetici».

Il secondo effetto è la carenza di alcune materie prime, con impatti più settoriali. Ad esempio, quella delle ferroleghe dalla Russia e dall’Ucraina incide sulla già martoriata siderurgia; quella del neon ucraino, invece, quella del neon colpisce l’automotive e l’elettronica, perché questo gas serve a realizzare i laser di precisione, quelli che incidono i wafer al silicio. Appesantisce, cioè, la carenza di microchip, a causa della quale è fermo per nove giorni, dal 19 marzo al 28 marzo, lo stabilimento Stellantis di Melfi, lì dove si producono la Jeep Renegade, la Compass e la 500X. D’altra parte, solo pochi giorni fa l’azienda aveva annunciato per Melfi la riduzione dei turni da 17 a 15, con conseguente esubero provvisorio di 1.500 unità.  A febbraio il gruppo guidato dal Ceo Carlos Tavares ha immatricolato nel Vecchio Continente il 17,5% di veicoli in meno rispetto allo stesso mese del 2021. Con il petrolio russo, invece, si fa il nerofumo, che serve per realizzare gli pneumatici. Manca anche il legname. Il terzo effetto è la carenza di alcuni componenti, come i cablaggi ucraini. È il motivo per cui, da una settimana, è ferma la linea produttiva Huracàn della Lamborghini a Sant’Agata Bolognese (Bologna), stop che ha coinvolto 200 dei 1.400 dipendenti (ovviamente non si tratta di danni tali da pregiudicare la redditività della casa automobilistica. Anzi va detto che il segmento del lusso in ambito automotive è l’unico a non risentire di alcuna crisi, anzi a crescere, sia per il Covid che per il conflitto).

Il quarto effetto è legato allo stop delle esportazioni italiane in Russia, anche legato alle sanzioni.  Ci sono aziende, come la Oma Spa a Foligno (Perugia, 600 dipendenti, settore aeronautico), come la Aermec di Bevilacqua (Verona, 800 dipendenti, sistemi di climatizzazione) o come la Scm Group a Rimini (macchine utensili) che hanno importanti ordini verso la Russia: Scm doveva peraltro inaugurare un nuovo stabilimento a Mosca. Ci sono poi le joint venture che rischiano di saltare: quella tra l’italiana Alenia-Aermacchi (Leonardo) e la russa Sukhoi Holding, la Superjet International di Tessera (Venezia), per la commercializzazione nel mondo del Sukhoi Superjet 100, potrebbe non essere rinnovata. Un esame completo dell’impatto della guerra su tutti i settori non è immaginabile, anche perché la situazione è in continuo movimento; in questa analisi, si prendono in considerazione i comparti più colpiti.

Importanti acciaierie a forno elettrico, come le Acciaierie di Verona (gruppo Pittini) e le bresciane Ori Martin e Feralpi procedono a “stop and go”. Verso l’una o le due del primo pomeriggio i gestori dell’energia rendono noto il costo dell’elettricità per il giorno successivo: sulla scorta di queste informazioni, si decide se e quale stabilimento attivare e a che ora. Il problema è che la tempistica operativa è una coperta sempre più corta. «Dopo mesi di progressivi rincari, lo shock rialzista innescato dal conflitto bellico in Ucraina ha portato i prezzi ai record storici, superiori ai 600 euro al Mwh (contro i 50 di due anni fa)» – ha affermato di recente Giuseppe Pasini, presidente del Gruppo Feralpi. A tutto ciò si è aggiunto un problema: prima della guerra, Russia e Ucraina erano esportatrici di bramme, billette, ghisa, preridotto, ferroleghe, rottame. Ora tutto questo materiale è fermo nei porti del Mar Nero. Le ferroleghe in particolare sono importantissime per l’industria siderurgica, perché conferiscono qualità distintive all’acciaio e alla ghisa o svolgono importanti funzioni durante la produzione, come quella di portare in analisi la composizione di un bagno d’acciaio liquido. Tra i metalli aggiunti al ferro per la realizzazione delle ferroleghe, il cromo, il molibdeno, il silicio, il titanio, il tungsteno, il nichel, il manganese, il vanadio. La carenza di ferroleghe russe ha una sola soluzione, e cioè quella di incrementare le importazioni da altri Paesi, come la Cina, l’India e il Sud Africa. A proposito di nichel, il suo prezzo è ormai fuori controllo. Al London Metal Exchange il mercato spot dei future sul nichel è stato interrotto dall’8 marzo al 16 marzo, dopo che i prezzi hanno superato brevemente la soglia dei 100mila dollari (dai 20mila di ottobre scorso). Le sanzioni occidentali contro Mosca per l’invasione dell’Ucraina hanno suscitato preoccupazioni: la Russia rappresenta circa il 10% della fornitura mondiale di nichel. In particolare per questo metallo, ora l’Europa deve orientarsi verso gli altri produttori: Indonesia, Filippine, Russia, Nuova Caledonia, Australia, Canada, Brasile, Cina e Cuba.

Intanto, sta aumentando il costo di tutto, dal coil a caldo al tondo per il cemento armato. L’acciaio costa ormai mille euro a tonnellata. Le acciaierie devono trasferire a valle i sovra-costi, ma i clienti fanno una comprensibile resistenza. In questo contesto, il rottame diventa prezioso. Infatti è stato uno degli argomenti trattati del ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti nel corso della sua visita a Feralpi, avvenuta qualche giorno fa. L’industria siderurgica italiana lamenta una situazione paradossale. Ogni anno, fra le 500mila e le 600mila tonnellate di rottami lasciano l’Italia, e circa 12 milioni di tonnellate lasciano il Vecchio Continente, che di questo materiale è un esportatore netto. L’Italia ne importa per 6 milioni. La Turchia, che sconta un costo del lavoro assai più basso di quello dei Paesi dell’Ue e standard diversi in termini di sicurezza e sostenibilità, ne fa incetta sui mercati, a prezzi più alti. Ciò contribuisce agli attuali rialzi. La guerra ha evidenziato la fragilità del sistema continentale e nazionale. Secondo Pasini, l’Europa dovrebbe considerare il rottame un materiale strategico, una miniera che va preservata. Giorgetti, più genericamente, ha affermato che «la situazione attuale richiede interventi straordinari. Il Governo ha già avviato molte misure e altre ne arriveranno. Dobbiamo porci il tema della sovranità energetica nel contesto europeo, dove l’Italia deve giocare un ruolo da protagonista». Feralpi sta portando avanti un piano per realizzare un impianto fotovoltaico da un centinaio di Mw, in grado di coprire il consumo italiano di energia del 20%. L’investimento è pari a un centinaio di milioni di euro.

La carenza di microchip ha caratterizzato tutto il 2021. Inizialmente, è stata causata dalla Cina, che al termine del lockdown ha fatto incetta di questi componenti su scala globale, mettendo in difficoltà i carmaker.  Infatti, in una macchina moderna ne servono a centinaia; e in una elettrica ce ne sono circa 3mila. Per questo, dallo scorso anno in avanti si sono verificati diversi shutdown. Per fare un esempio, l’anno scorso la Toyota ha tagliato la produzione globale del 40%. Nell’anno in corso le filiere si sono un po’ riorganizzate, e gli outlook hanno virato all’ottimismo: agli inizi di febbraio General Motors, Ford e Hyundai hanno previsto che lo shortage si sarebbe allentato verso la metà del 2022. Lo aveva affermato, ad esempio, il ceo di Gm Mary Barra. In realtà, i principali produttori di chip nel settore automobilistico, Nxp e Infineon, avevano espresso fin da subito seri dubbi su queste previsioni.

Poi è arrivata la guerra, e ora la questione si è fatta ancora più seria. L’Ucraina, infatti, produce circa la metà di tutto il neon, la cui funzione è già stata descritta. Il 75% del neon consumato al mondo serve per fare i semiconduttori. Con il prolungarsi del conflitto, le principali aziende ucraine del settore, Cryoin e Ingas, hanno sospeso tutte le attività. La fornitura del gas, rispettivamente 15mila e 20mila metri cubi, di fatto è attualmente bloccata. Aziende taiwanesi, statunitensi, tedesche, cinesi e coreane operative nel settore dei microchip rischiano la paralisi. Peraltro, Cryoin ha reso noto che se il conflitto durasse tre mesi, sarebbe costretta a chiudere i battenti per sempre, perché gli impianti non potrebbero essere più riattivati.

Per alcuni carmaker, la crisi dei cablaggi è ancora più grave di quella dei microchip. Quanto al Vecchio Continente, Bmw è stata costretta a sospendere la produzione, nel mese corrente, a Monaco e Dingolfing, in Germania, a Steyr in Austria e ad Oxford, in Inghilterra. A Lipsia uno dei due turni sarà annullato così come a Ratisbona. I cablaggi sono componenti essenziali del sistema elettrico di un’auto, e quelli di Bmw sono prodotti per lo più in Ucraina occidentale. Le forniture sono sospese. Anche lo stabilimento di assemblaggio Volkswagen di Wolfsburg e quello produttivo Porsche di Lipsia sono stati colpiti dalla crisi. D’altra parte, secondo una analisi effettuata nel 2020 dalla società di consulenza AlixPartners (sulla scorta di dati Comtrade), i cablaggi per l’automotive rappresentavano per l’Ucraina il 7% delle sue esportazioni in Unione Europea. E da venti anni a questa parte, in Ucraina, più di venti fornitori internazionali dedicati all’industria dell’auto hanno aperto circa 40 stabilimenti produttivi.

Il noto esperto di settore, Larry P. Vellequette (columnist di Automotive News e altro) ha sintetizzato così la situazione: «Puoi costruire un’auto senza chip, ma non senza cablaggi, il sistema nervoso di un’auto. Ho la sensazione che una grande parte del mondo stia per ricevere una dura lezione di anatomia automobilistica. Un’automobile moderna non ha solo cavi che vanno a componenti ovvi, come il motore e la trasmissione, l’illuminazione e la strumentazione. Lo stesso cablaggio deve anche alimentare l’elettricità ai comandi dei sedili e dei finestrini, ai gruppi di sensori e alle telecamere, ai moduli del servosterzo elettrico, alle pompe del carburante e dei freni». Quanto ai carmaker e ai componentisti italiani, secondo il vicepresidente di Anfia Marco Stella, benché le produzioni ucraine siano in parte ricollocabili nel breve, in questo momento la loro sospensione crea problemi. Di sicuro li crea a Automotive Lighting (gruppo Marelli) di Tolmezzo: il 14 marzo ha iniziato la cassa integrazione per 837 dipendenti su 930; terminerà il 9 aprile. Mancano i cablaggi e le schede dall’Ucraina per i marchi premium di Audi, Porsche, Bmw, e Volkswagen.

Si diceva del nichel, e dei guai che i prezzi impazziti stanno creando all’acciaieria. Il fatto è che il nichel è utilizzato anche nella produzione di apparecchiature per la preparazione degli alimenti, di telefoni cellulari, di dispositivi medici, e di batterie agli ioni di litio. In una Tesla Model 3 occorrono 47 kg di nichel. Ora, ancor prima dell’esplosione dei prezzi, i consumatori si erano resi conto che la transizione verde non è a costo zero. Avevano capito che nell’acquisto dell’auto  green c’è un differenziale dagli 7mila ai 10 mila euro, rispetto all’acquisto di una macchina a motore termico: e ciò a causa dei costi della batteria. Se il differenziale dovesse raddoppiare, e attualmente ce ne sono tutte le condizioni, per l’auto green sarebbe un colpo pesantissimo.

Due weekend di stop della produzione nei due stabilimenti Michelin di Spinetta (Alessandria) e Ronchi (Cuneo). In cassa integrazione, 500 dipendenti del primo e 900 del secondo. Il problema è la carenza di carbon black, o nerofumo, un derivato dal petrolio che arriva dalla Russia indispensabile per la mescola della gomma destinata ai battistrada. L’azienda fa sapere che sta cercando delle alternative. In realtà, il mondo degli pneumatici rischia di essere colpito in maniera più estesa. Infatti, la Russia è uno dei principali produttori di gomma sintetica, tanto che Pirelli, Nokian, Michelin, Bridgestone e Continental dispongono di stabilimenti in Russia. Quanto a Pirelli, che gestisce gli stabilimenti di pneumatici di Kirov e Voronezh, allo stato non è prevista nessuna chiusura in Europa.

Il legname proveniente da Russia e Bielorussia è «legname di guerra» e pertanto non potrà più essere certificato dal Pefc (Programme of endorsement of forest certification schemes), l’ente internazionale che fornisce una garanzia, verificata in maniera indipendente, che il materiale di origine legnosa e arborea provenga da foreste gestite in modo sostenibile. Oggi, in certi settori come il legno-arredo, la sostenibilità è quasi tutto; per cui si può dire che la materia prima di Russia e Bielorussia sia stata bandita. La Russia è il principale fornitore di betulla per il Belpaese.

Il settore legno-arredo si è dimostrato uno di quelli che maggiormente sono riusciti ad agganciare la ripresa post-Covid, con un fatturato nazionale a quota 49 miliardi, + 14,1% rispetto al 2019. Ma ora Claudio Feltrin, presidente di FederlegnoArredo, lancia un accorato allarme: «Le nostre imprese guardano al futuro con grande incertezza e preoccupazione per un conflitto che, oltre a essere un dramma umano, rischia anche di bloccare completamente la fase di recupero dell’economia italiana e di portare con sé scenari da recessione. Intere catene produttive si fermano per i costi dell’energia ormai insostenibili e anche nella nostra filiera c’è chi ha già spento per un periodo i motori. Mi riferisco alle prime lavorazioni del legno su cui l’incidenza dei costi energetici è davvero pesante e questo ha già avuto ricadute sui listini dei prodotti finali e ben presto inciderà anche sulla disponibilità di materie prime».

Si accennava a Pro-Gest, gruppo da 700 milioni di fatturato di proprietà della famiglia Zago. Sede a Ospedaletto d’Istrana, Treviso, ha 20 stabilimenti ed è leader nel riciclo con una capacità produttiva di oltre 1 milione di tonnellate di carta all’anno. Il problema, spiega l’azienda, è che attualmente la carta, venduta a circa 680 euro a tonnellata, richiede circa 750 euro di soli costi energetici, al netto degli investimenti. «È un momento di straordinaria e drammatica criticità che vogliamo superare quanto prima. Anche a causa del conflitto, il prezzo del gas naturale oggi è di oltre dieci volte superiore rispetto a dodici mesi fa ed è triplicato in poco più di una settimana. Chiediamo alle istituzioni di intervenire per salvaguardare interi comparti produttivi, messi oggi fuori mercato da un aumento incontrollato dei costi» – ha affermato Francesco Zago, Ad del Gruppo Pro-Gest. Hanno sospeso l’attività per una decina di giorni le Cartiere di Trevi (Perugia) e per due le Cartiere Saci (Verona). Il settore è in ginocchio, e secondo Assocarta la crisi è peggiore del Covid.

Anche qui la guerra sta facendo danni. D’altra parte, i ponteggi e il cemento armato si fanno con l’acciaio, settore i cui problemi abbiamo già analizzato. Più in generale, l’impennata dei costi del gas, dell’energia e delle materie prime lascia pochi margini alle imprese del settore costruzioni. Il conglomerato bituminoso, il calcestruzzo, il ferro e naturalmente il gasolio per le macchine operatrici, elementi base del settore edile, hanno raggiunto prezzi impensabili oltre ad essere ormai difficilmente reperibili sul mercato. In Italia è un susseguirsi di allarmi. Ad esempio, per le sigle sindacali di comparto Fillea Cgil, Filca Cisl e Feneal Uil della Toscana, mentre il superbonus al 110% aveva fatto volare il settore delle costruzioni a + 14.3% rispetto ai livelli pre-pandemici, la guerra «sbagliata e drammatica» con i suoi effetti sui prezzi e sul reperimento delle materie sta portando le imprese alla paralisi. Il problema è a tutto tondo: «Per i nuovi bandi di lavori – precisa Paolo De Cian, presidente di Ance Belluno – i prezzi sono talmente fuori mercato da convincere molti a rinunciare alla partecipazione, ancora più grave per i contratti già firmati mesi fa e non ancora partiti o per i lavori in corso, per cui i margini si sono già annullati e molti stanno chiedendo sospensioni o rinvii. Per quanto riguarda Belluno, se entro la settimana prossima non assisteremo a novità significative, la sezione locale proporrà ai suoi associati la chiusura dei cantieri. Quando un’impresa è pronta a rinunciare ad un lavoro già acquisito, rimettendoci anche il costo della fideiussione a garanzia, vuol dire che prima ancora di iniziare sa già di lavorare in perdita».

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